In pratica, l’organizzazione focalizza la propria offerta verso i segmenti bassi del mercato, dove gli utenti prestano molta attenzione al prezzo accontentandosi di performance di medio livello.
Come mostrato dalla figura, le imprese in un primo momento competono nell’estremità inferiore del mercato, offrono tipicamente prodotti di bassa qualità a prezzi relativamente convenienti ma privi di caratteristiche distintive. In pratica, si focalizzano sulle richieste di quei gruppi di clienti che non hanno accesso ai prodotti esistenti a causa del costo o che non sentono il bisogno delle medesime prestazioni di quelli richiesti dalla fascia alta del mercato. Quando tali segmenti vengono conquistati, l’impresa “new entrant” inizia a sfruttare la tecnologia per migliorare la qualità del prodotto, così da “aggredire” nuove fasce di consumatori e accrescere il margine di profitto. Di fronte a questa minaccia, l’incumbent non interviene per difendere la sua quota in un segmento ritenuto poco remunerativo, scegliendo di concentrare i propri sforzi su una base di clienti esistenti e più remunerativa. Ne consegue, che si ritroverà progressivamente compresso in mercati sempre più limitati, fino a quando le tecnologie “disruptive low-end” cresceranno al punto tale da soddisfare anche i bisogni del segmento più redditizio, rendendo irrilevante il ruolo dell’impresa incumbent sul mercato. La stessa sorte riguarda le aziende leader che si confrontano con innovazioni di tipo “disruptive new-market”. Queste ultime, essendo finalizzate all’apertura di un nuovo mercato, si rivolgono principalmente a segmenti di clienti nuovi o emergenti, con bisogni non ancora soddisfatti dalle soluzioni già presenti sul mercato. I non-clienti sono attratti da questi nuovi prodotti o servizi perché consentono loro di svolgere attività che prima erano considerate:
Di fatto, con la significativa crescita delle performance degli strumenti offerti, gli innovatori dispongono di nuove soluzioni appetibili per la nuova clientela e tutto ciò costringe le aziende consolidate a cedere la leadership entrando in crisi e molte volte addirittura fallendo, poiché non hanno saputo interpretare la nascita di un nuovo mercato come una potenziale minaccia.
Entrare in un mercato emergente richiede che un’azienda incumbent si sintonizzi sulla struttura dei costi di un mercato che di fatto non esiste. Se la struttura dei costi esistente di un’impresa è adeguata a margini più elevati derivanti da una base di clienti redditizia, perché il CEO dovrebbe orientare l’azione del business in un mercato indefinito? Non ha senso dal punto di vista commerciale. Chiunque, in prima battuta sarebbe portato fare lo stesso ragionamento:
perché alienare una base di clienti che ci dà il 30% di margine lordo per unità per perseguire un mercato vago che potrebbe darci solo il 15%?
Ebbene, questo è il motivo principale per cui le aziende incumbent non prestano la dovuta attenzione alle azioni portate avanti dai new entrant sui mercati emergenti! Tali imprese, trovano irrazionale l’abbandono delle posizioni consolidate sul mercato e preferiscono investire esclusivamente in ricerca e sviluppo, per poter offrire ai clienti già acquisiti, miglioramenti graduali e nuove funzionalità sui prodotti redditizi. L’errore strategico risiede nel considerare come potenziale minaccia del loro vantaggio competitivo, esclusivamente l’offerta dei competitor già noti, soprattutto in un orizzonte di medio-lungo periodo. Da questa prospettiva, è fondamentale valutare i trend e le trasformazioni che potrebbe subire il proprio mercato di riferimento. In un arco di tempo così dilatato, sarebbe più opportuno, da parte delle aziende incumbent, fare ragionamenti e ipotesi sugli scenari, i prodotti offerti e le risorse disponibili, al fine di captare i primi segnali deboli del futuro che si manifesta, così da confermare l’effettiva validità della propria offerta all’interno di una potenziale nuova arena competitiva. Sarebbe inoltre necessario focalizzare l’attenzione su cosa si nasconde dietro la scelta, da parte di un cliente, di un determinato prodotto così da comprendere effettivamente anche tutti quei bisogni che spesso restano latenti o inespressi.
Anche in questo caso, per capire quale sia la leva principale per un’innovazione di successo, Clayton Christensen ci viene in aiuto con la sua teoria del “Job To Be Done”. Essenzialmente, il professore afferma che le persone acquistano prodotti e servizi allo scopo di portare a termine un determinato lavoro o per raggiungere uno specifico obiettivo. Ogni consumatore, infatti, non compie le sue scelte tanto per l’oggetto in sé, quanto piuttosto per gli effetti legati al suo utilizzo, vale a dire che, le persone non cercano un prodotto ma cercano una soluzione ai loro problemi.
In altre parole:
“Le persone non vogliono un trapano da un quarto di pollice. Vogliono un buco nel muro da un quarto di pollice”
(Theodore Levitt, 1975)
La maggior parte delle organizzazioni orienta le proprie azioni finalizzandole al miglioramento del prodotto, senza neanche prendere in considerazione quello che realmente lo rende appetibile per i clienti, il cosidetto “job to be done”. Si concentrano su ciò che vogliono vendere e trascurano gli specifici bisogni di questi ultimi. Ciò può rivelarsi un errore fatale perché inevitabilmente porta l’impresa a considerare come competitor solo chi offre lo stesso prodotto dimenticandosi completamente di chi è in grado, invece, di fornire lo stesso risultato.
Questa evidenza ci spinge ad ulteriori ragionamenti, molto distanti da quelli a cui siamo abituati, dimostrando che la vera innovazione non si basa sulla complessità tecnologica, né sulle competenze richieste, ma riflette una logica di orientamento al mercato che valuta l’innovazione e la sua entità in relazione al valore generato per il cliente – prospettiva strategica – l’innovazione aumenta in maniera direttamente proporzionale all’aumentare del valore generato per il cliente.
Le innovazioni disruptive, dunque, non sono focalizzate a creare prodotti e servizi migliori da vendere su mercati esistenti, ma sono pensate per ridefinire la “traiettoria tecnologica” vale a dire, introdurre soluzioni di rottura più semplici, pratiche ed economicamente convenienti, tali da attrarre due tipologie di acquirenti in particolare:
In pratica, l’organizzazione focalizza la propria offerta verso i segmenti bassi del mercato, dove gli utenti prestano molta attenzione al prezzo accontentandosi di performance di medio livello.
Come mostrato dalla figura, le imprese in un primo momento competono nell’estremità inferiore del mercato, offrono tipicamente prodotti di bassa qualità a prezzi relativamente convenienti ma privi di caratteristiche distintive. In pratica, si focalizzano sulle richieste di quei gruppi di clienti che non hanno accesso ai prodotti esistenti a causa del costo o che non sentono il bisogno delle medesime prestazioni di quelli richiesti dalla fascia alta del mercato. Quando tali segmenti vengono conquistati, l’impresa “new entrant” inizia a sfruttare la tecnologia per migliorare la qualità del prodotto, così da “aggredire” nuove fasce di consumatori e accrescere il margine di profitto. Di fronte a questa minaccia, l’incumbent non interviene per difendere la sua quota in un segmento ritenuto poco remunerativo, scegliendo di concentrare i propri sforzi su una base di clienti esistenti e più remunerativa. Ne consegue, che si ritroverà progressivamente compresso in mercati sempre più limitati, fino a quando le tecnologie “disruptive low-end” cresceranno al punto tale da soddisfare anche i bisogni del segmento più redditizio, rendendo irrilevante il ruolo dell’impresa incumbent sul mercato. La stessa sorte riguarda le aziende leader che si confrontano con innovazioni di tipo “disruptive new-market”. Queste ultime, essendo finalizzate all’apertura di un nuovo mercato, si rivolgono principalmente a segmenti di clienti nuovi o emergenti, con bisogni non ancora soddisfatti dalle soluzioni già presenti sul mercato. I non-clienti sono attratti da questi nuovi prodotti o servizi perché consentono loro di svolgere attività che prima erano considerate:
Di fatto, con la significativa crescita delle performance degli strumenti offerti, gli innovatori dispongono di nuove soluzioni appetibili per la nuova clientela e tutto ciò costringe le aziende consolidate a cedere la leadership entrando in crisi e molte volte addirittura fallendo, poiché non hanno saputo interpretare la nascita di un nuovo mercato come una potenziale minaccia.
Entrare in un mercato emergente richiede che un’azienda incumbent si sintonizzi sulla struttura dei costi di un mercato che di fatto non esiste. Se la struttura dei costi esistente di un’impresa è adeguata a margini più elevati derivanti da una base di clienti redditizia, perché il CEO dovrebbe orientare l’azione del business in un mercato indefinito? Non ha senso dal punto di vista commerciale. Chiunque, in prima battuta sarebbe portato fare lo stesso ragionamento:
perché alienare una base di clienti che ci dà il 30% di margine lordo per unità per perseguire un mercato vago che potrebbe darci solo il 15%?
Ebbene, questo è il motivo principale per cui le aziende incumbent non prestano la dovuta attenzione alle azioni portate avanti dai new entrant sui mercati emergenti! Tali imprese, trovano irrazionale l’abbandono delle posizioni consolidate sul mercato e preferiscono investire esclusivamente in ricerca e sviluppo, per poter offrire ai clienti già acquisiti, miglioramenti graduali e nuove funzionalità sui prodotti redditizi. L’errore strategico risiede nel considerare come potenziale minaccia del loro vantaggio competitivo, esclusivamente l’offerta dei competitor già noti, soprattutto in un orizzonte di medio-lungo periodo. Da questa prospettiva, è fondamentale valutare i trend e le trasformazioni che potrebbe subire il proprio mercato di riferimento. In un arco di tempo così dilatato, sarebbe più opportuno, da parte delle aziende incumbent, fare ragionamenti e ipotesi sugli scenari, i prodotti offerti e le risorse disponibili, al fine di captare i primi segnali deboli del futuro che si manifesta, così da confermare l’effettiva validità della propria offerta all’interno di una potenziale nuova arena competitiva. Sarebbe inoltre necessario focalizzare l’attenzione su cosa si nasconde dietro la scelta, da parte di un cliente, di un determinato prodotto così da comprendere effettivamente anche tutti quei bisogni che spesso restano latenti o inespressi.
Anche in questo caso, per capire quale sia la leva principale per un’innovazione di successo, Clayton Christensen ci viene in aiuto con la sua teoria del “Job To Be Done”. Essenzialmente, il professore afferma che le persone acquistano prodotti e servizi allo scopo di portare a termine un determinato lavoro o per raggiungere uno specifico obiettivo. Ogni consumatore, infatti, non compie le sue scelte tanto per l’oggetto in sé, quanto piuttosto per gli effetti legati al suo utilizzo, vale a dire che, le persone non cercano un prodotto ma cercano una soluzione ai loro problemi.
In altre parole:
“Le persone non vogliono un trapano da un quarto di pollice. Vogliono un buco nel muro da un quarto di pollice”
(Theodore Levitt, 1975)
La maggior parte delle organizzazioni orienta le proprie azioni finalizzandole al miglioramento del prodotto, senza neanche prendere in considerazione quello che realmente lo rende appetibile per i clienti, il cosidetto “job to be done”. Si concentrano su ciò che vogliono vendere e trascurano gli specifici bisogni di questi ultimi. Ciò può rivelarsi un errore fatale perché inevitabilmente porta l’impresa a considerare come competitor solo chi offre lo stesso prodotto dimenticandosi completamente di chi è in grado, invece, di fornire lo stesso risultato.
Questa evidenza ci spinge ad ulteriori ragionamenti, molto distanti da quelli a cui siamo abituati, dimostrando che la vera innovazione non si basa sulla complessità tecnologica, né sulle competenze richieste, ma riflette una logica di orientamento al mercato che valuta l’innovazione e la sua entità in relazione al valore generato per il cliente – prospettiva strategica – l’innovazione aumenta in maniera direttamente proporzionale all’aumentare del valore generato per il cliente.